Il Rapporto 2025 sulla parità di genere nell’UE redatto dalla Commissione Europea fornisce una fotografia chiara: pur essendoci stati dei progressi, la piena uguaglianza resta lontana e, al ritmo attuale, occorreranno ancora 60 anni per colmare i divari di genere in Europa.
Questi dati mostrano come il persistere degli stereotipi di genere e la diseguale distribuzione del lavoro di cura pesi sulle carriere femminili. Questo non è solo un problema sociale, ma per le imprese ciò significa perdita di competitività, minor capacità di innovazione e difficoltà ad attrarre risorse qualificate, costituendo quindi anche un problema economico: secondo le stime, un maggiore equilibrio potrebbe far crescere il tasso di occupazione complessivo fino all’80% entro il 2050.
Il rapporto mette in luce esperienze concrete che possono ispirare le aziende:
In Italia, dal 2022 è attiva la Certificazione per la parità di genere UNI/PdR 125:2022, che definisce indicatori (KPI) su sei aree fondamentali: cultura e strategia, governance, processi HR, equità retributiva, tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro.
Le imprese certificate ottengono premialità nei bandi pubblici, sgravi contributivi e punteggi aggiuntivi negli appalti. Questo trasforma la parità di genere da impegno etico a leva di competitività concreta.
Le aziende che si certificano:
A luglio 2025 erano 8.798 le aziende che hanno ottenuto la Certificazione della parità di genere, che ad oggi è la quarta, per diffusione, dopo le certificazioni ISO 9001 relativa ai sistemi di gestione per la qualità, ISO 14001 per i sistemi di gestione ambientale e la ISO 45001 per la sicurezza sul lavoro.
Dal 30 giugno 2026, le grandi società quotate dovranno garantire almeno il 40% di presenza femminile nei consigli di amministrazione non esecutivi o il 33% nei board complessivi. La norma introduce anche procedure trasparenti di selezione, per ridurre il rischio di nomine meramente simboliche e promuovendo processi meritocratici.
In caso di mancato rispetto, gli Stati membri dovranno prevedere sanzioni effettive e dissuasive, che potranno includere multe o l’annullamento delle nomine irregolari.
Per le imprese italiane, già abituate alla legge Golfo-Mosca (che dal 2011 ha imposto quote di genere nei CdA delle società quotate e controllate pubbliche), questa direttiva rappresenta un ulteriore passo avanti: non solo mantenere i livelli di rappresentanza raggiunti, ma consolidarli e ampliarli anche alle posizioni esecutive e ai processi di governance.
In pratica, la Direttiva non si limita a “contare le presenze”, ma spinge le aziende a integrare la diversità di genere nella governance come elemento di sostenibilità e competitività, in linea con le logiche ESG e con le aspettative degli investitori istituzionali.
Oltre agli obiettivi di equilibrio nei CdA, l’Unione Europea ha introdotto la Direttiva (UE) 2023/970, che rafforza il diritto alla parità retributiva tra donne e uomini. Dal 7 giugno 2026 le aziende dovranno garantire maggiore trasparenza nei processi retributivi, fornendo informazioni chiare sui criteri di determinazione degli stipendi e consentendo ai dipendenti di conoscere il livello salariale medio per categorie di lavoratori comparabili.
Le imprese con più di 100 dipendenti saranno inoltre tenute a pubblicare report periodici sul divario retributivo di genere e, qualora emergano differenze superiori al 5% non giustificate da fattori oggettivi, dovranno avviare un processo di valutazione congiunta per correggere le disparità. Questa direttiva rappresenta un cambio di passo importante: non più solo dichiarazioni di principio, ma strumenti concreti che renderanno più difficile per le aziende ignorare o rinviare l’azione sui gender pay gap.
Oggi la parità di genere è anche un criterio ESG (Environmental, Social, Governance). Gli investitori istituzionali e i mercati finanziari valutano sempre più le aziende in base alla loro capacità di garantire inclusione e diversità nei processi decisionali. Avere CdA equilibrati e politiche di equità salariale non è solo un obbligo normativo, ma una leva di competitività, attrattività e reputazione. Integrare questi aspetti nella governance aziendale significa migliorare il posizionamento dell’impresa nelle valutazioni ESG e attrarre capitali, clienti e talenti.
[1] I dati di seguito riportati fanno riferimento all’anno 2023
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